di Vanni Sgaravatti
La narrazione ideologica fornisce schemi per interpretare e tradurre i risultati dei processi cognitivi, che sono alimentati dalle sensazioni provenienti dal corpo, rielaborate, interpretate e memorizzate sulla base della cultura di riferimento (processo bottom up con la prevalenza dell’emisfero cerebrale sinistro) e poi integrate per dare un senso complessivo rispetto al contesto (processo top down con la prevalenza dell’emisfero cerebrale destro), così da ricomporre nella nostra “sala di montaggio” interna, i diversi pattern in storie coerenti, con il nostro sé come attore protagonista.
Il linguaggio che usiamo per classificare e interpretare i pattern, i modelli interpretativi è forgiato e plasmato dalla cultura presente che è presidiata e orientata, senza piena consapevolezza, dalle classi dirigenti, di riferimento in determinati storici contesti culturali.
La costruzione top down, quella che invece ricostruisce il senso complessivo del nostro rapporto con l’ambiente è in noi connaturata, perché è quella che ci ha permesso di sviluppare la capacità anticipatoria, grazie a cui ci aspettiamo di prevedere il mondo che verrà, così da rendere più efficace la nostra agentività.
Se il linguaggio utilizzato per classificare le sensazioni percettive si serve di “sostantivi” da assegnare agli oggetti ci cui pensiamo sia fatto il mondo è chiaro che il processo di costruzione del sé, plasmato e consolidato dal pensiero top down, non può che rinforzare quel modo istintivo, inizialmente rassicurante, di percepire un mondo fatto di unità coese e compatte. Ne deriva che l’ambiente, se percepito come contenitore del nostro sé oggettuale, non può altro che essere considerato un contorno al servizio del contenuto. Se le narrazioni plasmano, attraverso il linguaggio, persino la nostra percezione del mondo, non ci si deve meravigliare se queste stanno alla base di un modo con cui nel tempo è stata gestita l’organizzazione e il potere nelle società, in particolare da quando a partire dal ‘500 la tecnologia della comunicazione ha dato un’accelerata alla globalizzazione e diffusione proprio di quelle narrazioni.
Sono le narrazioni ideologiche, ad esempio, che, in passato, hanno giustificato l’accettazione della disuguaglianza, un fenomeno che ha ripreso fortemente a crescere. È sempre stata alimentata, a questo scopo, la paura della povertà dilagante che viene a invadere le comfort zone a protezione del proprio benessere. Zone di sicurezza che proteggono dall’oscurità delle precarie povertà, che richiedono, per essere preservate, di auto narrazioni morali che nascondano i sensi di colpa che possono emergere dal disarmonico allontanamento dall’istinto di cooperazione e di mutuo aiuto di gruppo.
Tante sono queste narrazioni: la povertà vissuta come destino immutabile e predestinazione, la presenza di moltitudini di falsi poveri, quelli che lo erano per scelta pur di non lavorare, che sottraevano le elemosine ai veri poveri, una classe invisibile senza volto.
Per lo sviluppo industriale a partire dal ‘500 occorreva che, il povero mendicante passasse da una figura salvifica ad una parassitaria. Non più poveri come Cristo, come persone che si vergognano in silenzio, ma elementi socialmente pericolosi. Si sosteneva nei tanti editti dell’epoca che: “i poveri sono anche robusti; eppure, per la loro pigrizia non vogliono lavorare e così si prendono le elemosine che dovrebbero essere date ai veri poveri”. Per Martin Lutero, e la successiva cultura protestante, i poveri agivano in combutta con il diavolo e, anzi, era il diavolo in persona che si serviva di loro per impedire che le elemosine finissero nelle mani giuste. Era il trionfo dell’identificazione del mendicante con la “familia diaboli”. I senza dimora sradicati dai luoghi di origine e privi di mezzi di sostentamento, sconosciuti e spesso diversi nei loro comportamenti finivano dunque per generare diffidenza ed essere incolpati di contaminazione e untori di malattie. Le classi pericolose erano anche i lavoratori, che poi nel ‘800 formarono le masse di pericolosi socialisti una minaccia per la produzione industriale: un editto escludeva dalla partecipazione ai comitati cittadini quelli che vivevano del “lucro giornaliero”, perché non potendo colmare bisogni, non avrebbero potuto far altro che delinquere.
Sotto la crosta delle nostre narrazioni giustificatrici possiamo comprendere come, in tempi moderni, la distribuzione del potere è cominciata con l’accaparramento di terre pubbliche (il fenomeno delle enclosure inglesi) e poi la difesa di proprietà, con tanto di briganti al servizio di potenti, altrimenti disoccupati, che impediscono la distribuzione della terra ai contadini. Dal feudo alla proprietà come garante dell’ordine costituito il passo è stato breve.
Sembra che, pur cambiando la forma, ci sia una continuità a partire dal ‘500 tra la storia della povertà, della difesa dei privilegi e parallelamente la storia di narrazioni giustificative del mantenimento degli stessi privilegi della classe dirigente, tutte tese a connotare gli altri, quelli che vogliono accedere alle risorse accaparrate da qualcuno come le classi pericolose.
Oggi nell’era industriale e dopo due guerre mondiali, lo sviluppo capitalistico non può fare a meno di lavoratori/consumatori, visto che se l’occidente è diventato ricco, prima ha dovuto trovare il modo di vendere a basso prezzo alle moltitudini e non ai “principi” e poi ha trasformato in fornitori di informazioni, a costo zero, gli stessi lavoratori e consumatori nell’era del capitalismo di sorveglianza. In questo contesto culturale, le narrazioni ideologiche sono più sofisticate, prima hanno dovuto giustificare il colonialismo (le missioni di civilizzazione), cioè la necessità di trovare terre lontane dove collocare il necessario sfruttamento e poi di sedurre i lavoratori / consumatori / fornitori attraverso la seduzione di un mondo con servizi che ti tolgono la fatica. Una seduzione accompagnata dalla promozione della tecnica come obiettivo fine a sé stesso, confinando ideologie e visioni di un futuro da sognare, come utopie di altri tempi o meglio distopie di altri tempi. È una seduzione che ha indotto i consumatori occidentali a credere e volere che si potessero delegare le fatiche di conquistare il proprio futuro, fino gradualmente a sperare di eliminare tutte “le fatiche” persino quella di vivere.
E allora nella trasformazione delle nostre narrazioni, le classi pericolose sono diventate quelle che non perseguono l’obiettivo di produrre e consumare. Come urla qualche personaggio politico nostrano, un po’ fuori tempo massimo: “Non è ora di protestare e scioperare, ma di competere, lavorare e crescere”, pensando così di ammiccare ad una platea già convinta che si debbano fare molte chiacchiere per raccontarsi che bisogna chinare la testa e lavorare senza fare chiacchiere.
Più in generale, le narrazioni neoliberiste hanno convinto molti di poter crescere continuamente, che le briciole sarebbero arrivati a tutti, che il mercato avrebbe sistemato le cose, senza combattere e che, promuovendo l’efficienza economica, i risultati della produttività sarebbero stati distribuiti a tutti.
Quanto siamo cambiati, al di là di una crosta di comportamenti tipicamente moderni?
Insieme ad una nuova cognizione della realtà, indotta e modificata dal digitale e dall’intelligenza artificiale, continuano a risuonare diffidenze, paure, rabbie e risentimenti secolari.
Le narrazioni dipendono anche dai sistema politici: in democrazia, con i relativi poteri compensativi e con la tecnologia di comunicazione che porta ad una conoscenza diffusa non si può puntare ad una diretta manipolazione della realtà, ma, piuttosto cercare di inondarci di informazioni, di stimoli, diversi e sovrabbondanti.
E nelle comunicazioni digitali dei sistemi democratici, dove persuasioni seduttive sono una pratica continua, tante sono le narrazioni che impediscono di uscire dalla caverna in modo che ognuno può costruirsi il proprio mondo e le proprie credenze. E, alla fine, non essendoci più molta differenza tra mondi reali e mondi virtuali, non ha senso ricercare la verità al di fuori dell’ideologia dell’efficienza tecnica, perché tanto il mondo è una caverna, tutto è reale e la verità non esiste. L’importante è rendere conveniente la pigrizia di farsi scivolare dentro a quel mondo e rendere ineluttabile e connaturata alla natura la concezione della crescita continua, attraverso il potenziamento della tecnica.
Se volessimo, però, cercare di individuare la madre di tutte le narrazioni del mondo contemporaneo, quella che dà un contributo fondamentale e che forse è la causa di fondo delle pandemie come quella dell’ingiustizia sociale o ambientale dovremmo riflettere sulla cultura della separazione, della visione del mondo fatta da individui, quella che sta alla base dello slogan neoliberista: “ce la dobbiamo fare da soli”. Questa diventa la base di quell’ideologia sottesa (più o meno inconsapevole a chi la agisce) ispirata dal tentativo culturale di dividerci, frammentarci, proprio mentre la disarmonia nel nostro rapporto frammentario con l’ambiente naturale e sociale raggiunge punti di non ritorno.
Ma, allora, quali nuove etiche, quali percezioni cognitive della realtà si dovrebbero coltivare per contrastare queste nuove narrazioni?
Come si “pratica” il tanto citato pensiero autocritico, sbandierato come soluzione filosofica da quei dissidenti che sentono che c’è qualcosa che non va, in questo grigiore senza prospettive, in queste violenze fine a sé stesse?
Non ci sono ricette ovviamente, si possono riportare solo suggestioni: il pensare sul pensato, ad esempio, cioè il vederci anche dal di fuori mentre pensiamo quello che abbiamo pensato. Questo non comporta solo sentirsi interconnessi per sfuggire al male di vivere dei tempi correnti, che può diventare un pannicello consolatorio se a questa interconnessione non segue quel sentimento di intraconnessione.
Nel primo caso si parte sempre dalla percezione di noi stessi come unità, compatta, confinata, isolata, anche se collegata agli altri, alle altre unità e quindi, appunto, tra loro interconnesse. Nel secondo, l’intraconnessione, invece, ha al centro invece la relazione. I nodi che si interrelano, non esistono se non nella loro connessione. Personalmente, se per intuire il concetto di intraconnessione, lo devo associare ad un’immagine allora il ricordo va a quella piacevole sensazione in cui ci si avverte come un nodo di un gruppo, con la vista rivolta alla direzione dello stesso, come l’equipaggio di una barca a vela, in cui ci si sente un tutt’uno con mare, vele, vento, senza alcuna differenza, neppure percepita, tra chi decide la strategia, chi timona e chi cazza una vela. In quel momento si dimentica la paura della morte del proprio sé.
Siamo cresciuti con un linguaggio che separa, che declina la realtà in punti (oggetti, individui), che colleghiamo poi tra loro come i fili di una rete. Ad esempio, noi parliamo di “afferrare” un concetto, perché è un verbo per noi naturale, visto che utilizziamo quelle metafore interpretative che trovano un corrispettivo nella conoscenza corporea, quella che, afferrando gli oggetti, prolunga la potenza del corpo, la realizzazione del desiderio del singolo nodo di una rete. Ma, mettere il processo in cui le relazioni si manifestano, utilizzando il verbo che definisce l’agire al centro della costruzione del proprio sé, invece del sostantivo (io, tu, ecc.) significa accettare la precarietà e l’incertezza come un dato ontologico della nostra vita, perché la vita potrebbe sembrarti senza punti fermi. Questo perché il confine percepito da un sé contenuto dal proprio corpo, come fosse guscio di una tartaruga, ci permette di avvertire maggior controllo dell’ambiente esterno e quindi di sentirci più sicuri. Anche se, identificarci in un oggetto confinato necessariamente comporta essere consapevoli della tendenza allo scioglimento dei confini e, quindi, della propria morte e, talvolta, della mancanza del senso.
Allora, per calmare l’angoscia di morte, senza abbandonare il bisogno di controllo nel rapporto del sé con la realtà, ci raccontiamo che riusciamo a sfuggire al mondo fatto di oggetti, solo per il fatto che, in fondo, crediamo nelle relazioni e cerchiamo di agire delle buone relazioni. Cioè nel fare del bene all’altro con cui ci relazioniamo.
Ma, forse, non basta se permane in noi una sensazione di inquietudine, di non senso esistenziale, di solitudine. Le buone relazioni sono necessarie, ma non sufficienti per cambiare il mondo, se non sono un modo per promuovere un’etica che caratterizzi il senso dell’umano e del vivente, perseguendo un’unione tra etica deontologica ed etica delle virtù. Etiche adatte a sostenere una cognizione di un sé allargato, di una capacità di vederci contemporaneamente dal di fuori, dal di dentro e parte del tutto. Senza pensare di afferrare separatamente solo una delle due prospettive.
(10 febbraio 2024)
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