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Saremo tutti nomadi climatici

di Vanni Sgaravatti

Questo è il “secolo nomade”, come sostiene Gaia Vince nel suo libro. Fa sorridere quando molti italiani nel sentire parlare di cambiamento climatico, pensano che si stia parlando di quanto sudano oggi i propri vicini o al contrario di quanto hanno freddo. Ho già parlato in altri articoli che si considera drammatico l’aumento di 0,82 gradi rispetto ad una temperatura media planetaria attorno ai 16 gradi. Se fosse questa la media italiana, parleremmo di un raffreddamento e non di riscaldamento. Anche se, a dire il vero, le zone temperate si contraddistinguevano soprattutto per un contenimento delle variazioni di temperatura, più che del livello medio.

Si prevedono, quindi, migrazioni di massa provocate da questo cambiamento ambientale. Migrazioni che, peraltro, sono già sono iniziate.

Parliamo nel breve periodo di mezzo miliardo di cinesi che si sposteranno nel centro della Cina, di un miliardo di indiani che si sposteranno da una regione ad un’altra della stessa India. Parliamo di milioni di persone del Bangladesh che dovranno emigrare perchè una gran parte delle terre saranno sommerse. Così parliamo di migrazioni dall’Australia e dal Sudan e di migrazioni dal sud degli Stati Uniti (Miami, New Orleans) a Stati come l’Oregon e il Montana. Si parla di ripopolamento dell’Artico, della Siberia e della Groenlandia.

Mentre, contemporaneamente, per 23 stati nel mondo, quelli attualmente tra i più sviluppati, la popolazione anziana oltre i 65 anni potrà contare per il proprio welfare su un numero sempre più esiguo di giovani e adulti. Quindi si prevede che città come Monaco di Baviera competerà con Buffalo per attrarre una parte significativa di questi flussi di immigrati, quando nel lungo periodo innovazioni geotermiche renderanno di nuovo abitabili alcune terre del sud e queste saranno nuovamente ripopolate. Questi sono i complessi scenari studiati dalle organizzazioni dell’Onu. Anche qualora, parlando di riscaldamento climatico, si intendesse parlare solo della percezione del caldo degli esseri umani e non delle variazioni e dell’impatto nella produzione alimentare, le organizzazioni mondiali non parlano certo degli italiani in vacanza che sudano, ma del numero di persone che vivono in posti dove i giorni sopra i 50 gradi sono raddoppiati. E quando parlano di migrazioni il problema italiano è uno in una lunghissima lista.

Ma noi italiani, quando pensiamo alle grandi migrazioni come effetti del degrado ambientale e del cambiamento climatico abbiamo due immagini in testa: a) i poveri del mondo che alla presa con problemi di siccità e malattie sono costretti a venire nei paesi ricchi, cioè il nostro e b) i nostri nipotini che saranno anche loro alle prese con una insopportabilità della vita quotidiana. Non siete stupiti dalla profondità del punto di vista? Noi di più.

Naturalmente dal punto di vista razionale i più accorti si immaginano che il cambiamento climatico significhi un impatto sulla produzione alimentare, gli ottimisti si immaginano che l’innovazione tecnologica e un cambiamento nello stile di vita porteranno alle soluzioni giuste, i pessimisti vedono il futuro dei nipotini ancora più distopico. Poi qualcuno, tra i più accorti, vede un aumento di morti e feriti per disastri ambientali. I negazionisti tendono a riportare questi fenomeni all’interno di una tradizione (così è sempre stato), gli ottimisti vedono la possibilità di mitigazioni attraverso adattamenti e tecnologie, i pessimisti si consolano immaginando che tocchi sempre a qualcun altro e comunque vedono ancora più distopico il futuro dei nipotini.

In realtà, nell’affrontare il discorso delle migrazioni o meglio della visione del secolo nomade che ci aspetta sarebbe meglio dare una risposta a queste domande: il cambiamento climatico riguarda davvero solo gli altri, i poveri e i nostri nipotini?

Questo approfondimento per dare una risposta fondata ha un senso anche per chi negasse le responsabilità dell’uomo in questo degrado planetario: se anche fosse un fenomeno naturale gli effetti potrebbero essere comunque naturalmente drammatici. Certo l’approfondimento non serve per i negazionisti assoluti, che non solo negano le soluzioni ambientaliste o la colpa dell’uomo ma gli stessi dati sul cambiamento ambientale. Ma non c’è da meravigliarsi: ci sono i terrapiattisti e i rettiliani, che sono persino ancora più estremi nella percezione di una realtà davvero diversa da quella narrata dai più.

Personalmente non credo, dal momento che, come ho già detto, non si vede perché la natura proceda da sola nel cambiamento delle condizioni con una tendenza esponenziale, cioè producendo un flusso di anidride carbonica, per fare un esempio, doppio, rispetto ai 15 anni precedenti. Una strana accelerazione per una natura che ragiona in cambiamenti nell’ordine dei milioni di anni.

È vero la terra ha già assistito a questi cambiamenti. Il fatto che la colpa sia dei vulcani milioni di anni fa, di un asteroide 60 milioni di anni fa o delle attività antropiche è interessante solo nella misura in cui pensiamo di poter fare qualcosa. Per le prime due cause, non possiamo fare altro che metterci ad ascoltare la banda del Titanic.

Ma, la risposta alla domanda sull’importanza del cambiamento climatico per noi la si trova sapendo leggere i dati sulle modificazioni sociali in un paese globalmente ricco come gli USA: persone con livelli di istruzione elevati che non possono più vivere dove avevano pianificato di farlo, perché è impossibile ottenere un mutuo o un’assicurazione sulla proprietà, perché il lavoro si è trasferito altrove. E questo anche perché il loro quartiere è diventato luogo poco desiderabile: chi poteva è già partito alla ricerca di un clima più tollerabile.

Negli Stati Uniti il cambiamento climatico ha sradicato milioni di persone: nel 2018 un milione e duecentomila persone sono state colpite da condizioni estreme e nel 2020 tale tasso annuale è salito 1,7 milioni. Attualmente in quel paese si verifica un disastro da un miliardo di dollari ogni 18 giorni. Secondo un’indagine del 2021 sugli americani che si stavano trasferendo, la metà di loro ha citato i rischi climatici come uno dei fattori che li aveva indotti a quella scelta. Negli Stati Uniti occidentali si stanno affrontando condizioni estreme nelle città e gli agricoltori del bacino di nell’Oregon stanno parlando di ricorrere a metodi violenti per aprire i cancelli delle dighe così da ottenere acqua per l’irrigazione. Entro il 2050 mezzo milione di case attualmente esistenti negli Stati Uniti si troveranno sui terreni che si allegheranno almeno una volta all’anno, secondo i dati del Climate Central un ente di ricerca composto da scienziati e giornalisti. Queste abitazioni hanno un valore complessivo di 241 miliardi di dollari ed anche se un edificio non si allaga, ma una certa quantità di infrastrutture locali viene allagata, il quartiere diventa impraticabile e la gente si trasferisce. Tra le persone colpite ci saranno i residenti di città importanti come i 400.000 abitanti di New Orleans, mentre agli abitanti delle isole di Jean Charles in Louisiana sono già stati assegnati 48 milioni di dollari di tasse federali per spostare l’intera comunità a causa dell’erosione costiera dell’innalzamento del livello del mare.

Nel Regno unito gli abitanti del paesino gallese di Air Bourne è stato detto che le loro case dovranno essere abbandonate a causa di innalzamento del livello del mare e l’intero villaggio sarà disattivato entro il 2045. Anche alcune grandi città portuali sono a rischio: si prevede ad esempio che Cardiff, la capitale del gas del Galles, sarà per 2/3 sommersa.

L’organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni unite stima che già nei prossimi trent’anni potrebbero esserci fino a 1,5 miliardi di migranti climatici e dopo il 2050 questa cifra è destinata a salire per via dell’ulteriore riscaldamento del pianeta e l’aumento della popolazione globale fino al picco previsto per la metà degli anni 60. Inoltre, attualmente, a livello mondiale disastri ambientali già spostano fino a 10 volte più persone dei conflitti e delle guerre. Non è una questione quindi che riguarda solo i poveri ed i nostri bisnipoti. Sui primi noi saremmo eticamente attrezzati, se così vogliamo dire, nella tradizionale gestione delle disuguaglianze, facendoci accompagnare da collaudate teorie giustificazioniste, morali o politiche che siano. Molti di noi, in particolare gli americani, immaginano soluzioni individuali, cercano case e terreni in Canada o in Nuova Zelanda, ma non sono queste le risposte. Dobbiamo immaginare, in futuro, la concentrazione di popolazioni in aree più ristrette ed è impossibile immaginare muri che tra l’altro non potrebbero più dividere un mondo ordinatamente diviso in due tra ricchi e poveri. Se anche fosse possibile, sarebbe molto probabile un ulteriore aumento esponenziale di conflitti, con una conseguente e parallela crescita a dismisura del degrado morale, una difficoltà nel trovare giustificazioni etiche e giuridiche che accompagnino i tentativi di repressioni sempre più dure a fronte di sempre maggiori esigenze di sicurezza e di controllo e che attualmente si cercano di trovare nella tradizionale difesa della tradizione sovranista.

In previsione di questo contesto distopico, occorrerebbe riflettere sul fatto che, da sempre, la nostra forza, la nostra resilienza è stata quella di essere nomadi, cioè la capacità di adattarci in ambienti che andavamo ad occupare. Ambienti sempre diversi che abbiamo plasmato alle nostre esigenze con le nefaste conseguenze quando la cultura industriale e accumulativa ha preso il sopravvento.

Da sempre i sapiens sono, quindi, nomadi. È una questione di frequenza di spostamento. Qualche collettività viene correntemente definita nomade perché i trasferimenti possono essere persino giornalieri, mentre per altre collettività si parla di frequenze secolari o millenarie. L’Europa sembra abbia dimenticato definitivamente questa originaria caratteristica. Siamo attaccati al nostro ecosistema culturale e, quindi, siamo destinati a scomparire, quando questo venisse devastato come è capitato a tante specie, meno adattabili. E non perché ci sono i cattivi giovanottoni che non accettano il nostro stile di vita. Questi portano disagio a tanti di noi, ma non sono la causa della nostra estinzione.

Un’altra nostra forza è stata la coesione sociale, con uno sviluppo culturale e la morale che è servito anche a questo, fino ad arrivare, in una fase della nostra storia, in cui la sovranità degli Stati ha costituito un fattore di forza di alcune comunità (quelle occidentali), perché hanno aumentato il livello di coesione attorno a simboli come le bandiere e le identità di appartenenza. Ma la globalizzazione e l’uniformità capitalistica ha portato ad un superamento dei confini, ad esportare opportunità materiali, ma anche ad esportare problemi sociali e ambientali, senza poter contare su un’armonica esportazione di corrispondenti globali valori, morali e regole. Una necessità quella di trovare una morale comune che, inevitabilmente, stravolgendo gli equilibri sociali, politici, ma anche profondamente culturali, farà aumentare gli scontri ed i conflitti, portando ad un sempre maggiore disequilibrio planetario.

Lo sconvolgimento potenziale non poteva essere più profondo ed in questo contesto si colloca la battaglia finale tra modelli politici: oligarchia in cui pochi decidono della libertà di molti e democrazia liberale in cui tutti concorrono, perché nessuno si salva da solo. Ma questa è un’altra storia.

 

 

(10 settembre 2023)

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