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Verso nuove egemonie culturali sociali ed economiche

di Vanni Sgaravatti

L’idea che gli Americani dominino il mondo economico, pianifichino e controllino le sfere di influenza, insomma che siano l’unica potenza egemonica del pianeta è un’idea datata alimentata dalla percezione, altrettanto datata, di aver vinto la guerra fredda.

Ma quello che forse alcuni non hanno chiaro è che il potere economico-militare non è solo spartito con la Cina e forse con la Russia e neppure che entro il 2030 la Cina e i mercati asiatici saranno davvero egemonici, ma che questo si porta dietro un diverso modello egemonico. Anzi, forse, più che portarsi dietro, è quello che traina lo sviluppo dell’area asiatica del pianeta.

Max Weber nel 900 mise in luce le connessioni tra cultura protestante e rivoluzione industriale e capitalistica.

In Oriente il rapporto tra confucianesimo e cultura sociale, politica ed economica è stato considerato uno dei fattori che spiegava il minor tasso di innovazione, cambiamento, sviluppo e accumulo. In tale modello tutto era immanente e non trascendente, dove il successo economico e la crescita servono per conquistarsi il paradiso e il rapporto tra individuo, società e ambiente si prestava meno alla manipolazione delle risorse ambientali al fine della crescita. Il comunismo prima e la competizione neoliberista occidentale poi si è innestata nella cultura confuciana introducendo una variabile aggressiva e manipolatoria nel sistema, in particolare quello cinese, senza alcun contrappeso nel rispetto dei desideri dell’io individuo, un’entità praticamente inconcepibile per quella cultura.

Ora noi conosciamo gli effetti tremendamente negativi del nostro modello: l’eccessivo narcisismo, il desiderio fatto di impulsi non orientati dal senso, un sistema basato sulla regolazione ma senza una direzione, che porta non solo all’alienazione degli sfruttati, ma anche alla precarietà di una vita che gira a vuoto, una separazione tra io e natura, tra sé e il resto del reale, che porta a renderlo oggetto di osservazione e poi di manipolazione strumentale della ragione. E questo se ha prodotto una volontà di potenza che ha portato maggiori vantaggi socioeconomici ai soggetti protagonisti di tale separazione ha portato, con il tempo, noti feed back potenzialmente catastrofici.

L’attuale consapevolezza di questi ha prodotto negli intellettuali nostrani, ribelli e dissidenti, una voglia quasi nostalgica di trovare negli occidentali, americani in testa, la madre di tutti gli imperialismi.

Ma, dall’altra parte della luna, nelle culture non occidentali, che stanno elaborando un modello neoimperialistico, su fondamenti spirituali e culturali differenti, c’è un mondo in cui desideri e diritti individuali non hanno spazio in politiche in cui l’unico soggetto che conta è la comunità. In cui il conformismo non è una diminuzione del pensiero innovativo e creativo, come da noi, ma un virtuoso lasciarsi andare al flusso in cui l’individuo esiste solo in quanto facilita lo spirito e il fluire delle prassi comunitarie ed in cui il criterio è sempre e solo quelli dell’utilitarismo sociale. Quell’utilitarismo sociale, in cui duemila morti di persone che forniscono un contributo maggiore al sistema (magari perché appartengono alla razza han) pesano più di 1000 persone che offrono minori contributi, senza se e senza ma, e, soprattutto, senza complessi di colpa. E, purtroppo, la sostenibilità, necessaria ad evitare l’estinzione e la digitalizzazione elemento fondante della infosfera in cui siamo immersi e che promette soluzioni alle necessità dello sviluppo sostenibile, spingono verso soluzioni politiche verticistiche, centralizzate e autarchiche, proprio quelle in cui l’utilitarismo sociale è criterio centrale per un’efficace governance.

I lockdown cinesi sono stati i primi segnali di questa tendenza. 

Abbiamo capito, se così fosse, qual è la posta in gioco, mentre noi non ce ne accorgiamo o ci occupiamo delle competizioni locali?

Lo scontro di civiltà, riportato nel famoso libro di Huntington, poteva non necessariamente essere un criterio per prevedere il futuro geopolitico, ma ora forse le condizioni lo fanno diventare proprio questo. E queste tensioni tra diverse culture e civiltà si manifestano nei confini meno definiti o nei luoghi più fragili, come quelli a rischio di desertificazione, dove si giocano, ad esempio, le guerre dell’acqua.

Credere, ad esempio, che la cessione del Donbass, dove passa uno di questi confini “fragili”, o, per meglio dire, spingere con comportamenti quasi ricattatori gli Ucraini a cedere il Donbass, porti alla pace è, forse, un’illusione.

Si può immaginare che conduca ad una tregua momentanea, anche se ho i miei dubbi, che questo sia possibile, a meno di sperare in una repressione di tutti le instabilità terroristiche che ne conseguirebbero. Ma il costo di disgregazione interna e dei rapporti con l’Ucraina sarebbe tale, da essere giustificata almeno per una pace duratura, non per una tregua, peraltro instabile.

Si può, però continuare a sperare comunque in un risveglio della coscienza e predicare verso la pace, che dovrebbe essere accompagnata però da riflessioni sulle ragioni profonde dei venti di guerra e di conflitto, con uno spirito autocritico altrettanto profondo, senza scorciatoie del tipo: “Cediamo il pasto al leone, così si calma”; “Torniamo al passato e negoziamo una Yalta 2”, “Inveiamo contro i cattivi, gli oligarchi e i supericchi di ogni nazione, che sono i veri colpevoli”.

Il nemico, il colpevole, il male è sempre fuori di noi, il costo del cambiamento lo pagano loro, gli altri. Credo, cioè che dovremmo capire quali carte si starebbero giocando nei conflitti in cui nessun decisore protagonista agisce sulla base della consapevolezza razionale dello scontro tra modelli di civiltà, ma ne è agito a sua insaputa. Si disegna niente meno che il futuro del rapporto tra io e comunità, tra democrazia, autocrazia per affrontare la digitalizzazione del mondo necessaria a reggere la sostenibilità della vita.

 

(27 maggio 2022)

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