di Vanni Sgaravatti
Se fare filosofia significa cercare insieme il significato delle cose, percezioni, parole, comportamenti, in un percorso che risalga più vicino possibile alle cause prime, lo scopo della filosofia è capire come le cose, nel senso più ampio del termine, stanno insieme nel senso più ampio del termine.
Allora, visto che anche la psicoterapia è un metodo di cura, la cui pratica ben si adatta alle stesse definizioni riportate sopra per la filosofia e che utilizza per la cura della relazione, la parola condivisa con il paziente, allora, per analogia, si può dire che anche la filosofia è un metodo curativo, non direttamente individuale, ma più collettivo. Per l’anima e il corpo, vista la stretta connessione tra i due.
Anche la religione può diventare filosofia, quando il prete interpreta il suo ruolo anche come quello che stimola una riflessione interiore, educando all’autonomia di pensiero e non all’evangelizzazione del portatore del pensiero.
Ma la ritualità religiosa dovrebbe permettere di calmare passioni e indurre autoriflessioni autonome, in forme che si prestano ad un efficace condivisione con l’altro, invece di fornire, come quasi sempre succede, segni di un’identificazione collettiva in una bandiera.
Una bandiera che, per definizione, diventa particolare e non universale, come la religione pretenderebbe di essere.
Se un credente ritrova il suo dio, dopo averlo creduto morto, vuol dire che ha fatto un percorso autonomo di avvicinamento, perché solo se qualcosa è perduta può essere trovata.
Il trucco, o meglio il punto critico di questo discorso, sta nella motivazione del ritrovamento. Solitudine, ricerca di una pace che non ti lascia in pace, non trovata in altro modo, angoscia di morte?
Non si avrà mai la certezza di essere sufficientemente indipendenti da questi bisogni esistenziali, per dire che il processo di avvicinamento al credere sia non sia condizionato da vincoli e necessità esistenziali. Per questo il credere è un continuo processo di autoriflessione, il più possibile autonoma, e non un punto di arrivo.
Ma la Chiesa, in quanto strutturata organizzazione, consolidata nei secoli, si fonda proprio sulla seduzione (nel significato etimologico di “condurre a sé”), che fa leva su quei bisogni.
Il letteralismo, come approccio alla interpretazione delle Sacre scritture dell’antico testamento o come la corrente wahabita della religione musulmana è un modo per dare istruzioni al gregge da portare all’ovile, così come l’attribuzione di un potere esclusivo interpretativo ad una specifica casta.
Non può essere altrimenti per un’organizzazione, che ha spesso dato una certa libertà ai teologi o filosofi, fino a quando non mettessero in crisi il collante che tiene insieme l’organizzazione, allontanando l’attenzione del gregge verso quei riti, utilizzati come reciproco riconoscimento, invece di supporto ad una meditazione condivisa.
Forse storicamente, per esigenze di controllo e di antidoto contro il caos e la conseguente immagine dei cavalieri dell’apocalisse che scorrazzerebbero per il mondo, non era e non è possibile fare altrimenti?
Può essere, ma oggi, con l’esplosione del sistema informativo, si è superata quella soglia, oltre la quale, può emergere un cambiamento nella stessa struttura cognitiva delle relazioni umane. E, quindi, il controllo diventa problematico anche per una consolidata organizzazione religiosa.
I big data e la I.A., cercando schemi ricorrenti che emergono dai dati, tendono a far credere che si possa fare a meno non tanto dell’esistenza di un logos, ma della stessa ricerca del logos, considerata come priva di senso, perché non più funzionale al sistema.
E cioè si tende a credere che si possa fare a meno della filosofia come processo di ricerca, intendendola, cioè, come sopra riportato e non come storia della filosofia e dei filosofi.
Un logos che, chi ha bisogno di attribuirlo ad un nome da dare all’agente che sta dietro, lo può anche trovare in Dio e in chi ha bisogno di vederlo a propria immagine e somiglianza, lo può persino dipingere come un saggio uomo anziano con la barba.
Questo affidarsi agli schemi emergenti dai dati è un fattore inquietante, di fondo, un logos appunto, che stimola la tendenza alla pigrizia e passività.
Due caratteristiche che pongono a margine l’uomo e lo renderebbero sempre più solo e depresso, senonché, per compensare, viene, per converso, sospinto verso la ricerca della potenza o della centralità perduta nell’aggregazione verso una bandiera o verso il carisma di un leader.
Spingendo, così, la governance del mondo adatta all’entrata in scena nel palcoscenico delle umane relazioni, di poteri accentrati, autocratici e oligarchici, a cui affidare persino la riscrittura della storia nella legittimazione di sé stessi.
Ma, oltre alla necessità di educare al pensiero filosofico, ci sarebbe un altro motivo che attribuisce alla filosofia, cioè al ragionare insieme sul significato di una prassi condivisa, un’importanza, persino morale.
Mi riferisco alla raccomandazione socratica di agire, sulla base di una conoscenza vera della giustezza dei motivi dell’agire, quando si considerasse la ricerca di “una vita giusta”, il fattore che ne fornisce un senso.
Ad esempio, la pietà o la tolleranza che danno origine a giudizi che precedono un’azione verso l’altro, prevede non solo che si agisca sulla base di una propria credenza, dal momento che la pietà o la tolleranza non dovrebbero essere guidati dal caso, bensì dalla consapevolezza, ma sulla base di una vera (relativamente al soggetto) conoscenza.
Occorre, cioè, avere fatto adeguate riflessioni, al punto di saper esprimere, non solo il significato che attribuiamo alle specifiche circostanze, ma anche la nostra conoscenza in merito a cosa è per noi, nell’esempio, la pietà e la tolleranza (tratto dal dialogo tra Socrate ed Eutifrone).
Da questa socratica raccomandazione, ci possiamo rendere conto quanto, pigrizia e passività sono caratteristiche particolarmente sospinte verso livelli mai raggiunti prima (almeno nelle società dove la sopravvivenza non è la priorità) dai flussi informativi, caotici e casuali che ci attraversano nel mondo contemporaneo.
E ci possiamo rendere conto di come questo contesto incida, quindi, sulla possibilità di una nostra ricerca consapevole nel condurre “una vita giusta”, restituendoci una sensazione di mancanza di un senso e di utilità di questa ricerca.
Se il senso dell’umano e se la cura delle relazioni non lo si cerca solo nell’agire in modo sempre più efficiente, potenziando così la tecnica e la crescita come fine a sè stessa, allora è nella condivisione dei significati della prassi condivisa nei gruppi di persone che lavorano insieme, che si trova un antidoto anche con quel burn out che di cui spesso faccio esperienza nel nostro progetto sociosanitario assistenziale “Cura delle relazioni per la prevenzione del disagio”.
Ma nessuna soluzione, in particolare quelle che dovrebbero porre rimedio ad una deriva sociale così trasformativa, è senza fatica e rischio di perdere la via, o, meglio il controllo. Condizione tipica di chi, per altri versi, crede di delegare ad altri il potere, senza essere consapevoli che la personale condizione per la loro disponibilità a farlo è che l’altro operi bene, cioè in conformità con il pensiero del delegante.
Il sistema trasforma e ingoia ogni cosa all’interno della burocrazia, intesa come modo di classificare il reale, linguaggio ontologico dell’amministrazione. Ed è in questa direzione che l’agire etico può diventare una spinta ad un agire in conformità ad un codice etico scritto sulla pietra di volantini aziendali e la riflessione condivisa diventa inevitabilmente una moda di management.
E questo succede quando la cura delle relazioni diventa la moda dei “gruppi di riflessione” ed è attuata con il fine di rendere strumentalmente più efficienti le “risorse umane”, che, al contrario dei meccanismi hanno ancora bisogno di essere motivati da uno scopo.
Anche se, così facendo, cioè considerando l’altro, collaboratore o compagno di lavoro, come uno strumento e non come un fine, la risorsa diventa per definizione “disumana”.
Assume, cioè, la funzione di quel “pezzo” di sistema che può orientare gli agenti artificiali in una direzione, basta che non gli umani coinvolti non si chiedano troppi “perché” alla ricerca di ragioni diverse da quelle promosse dalle organizzazioni in cui vivono, anch’esse agenti artificiali.
Insomma, siamo concreti non facciamo “filosofia”.
(21 settembre 2025)
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