di Vanni Sgaravatti
“Allora il signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi quello doveva essere il suo nome”.
Genesi (2,5)
Introduzione: quell’inspiegabile senso di impotenza
Una coda interminabile, un modulo incomprensibile, una procedura che sembra progettata per sfinire la volontà umana. Chi non ha mai provato quel particolare senso di impotenza di fronte all’apparato burocratico? Ma questa frustrazione, così universale da sembrare banale, è molto più di una semplice seccatura. È il sintomo di una forza che modella le nostre vite in modi invisibili: è l’architettura della nostra impotenza.
L’idea centrale di questo saggio è che la burocrazia, specialmente nella sua crescente alleanza con l’intelligenza artificiale, non è un semplice strumento amministrativo. È un sistema che sta attivamente ridisegnando la nostra politica, il nostro modo di pensare e persino il nostro senso della realtà. Non è un argomento tecnico per addetti ai lavori, ma una delle questioni filosofiche e sociali più urgenti del nostro tempo.
Esploreremo sei delle sue manifestazioni più sorprendenti e controintuitive, per comprendere come un sistema nato per portare ordine stia generando un nuovo tipo di caos esistenziale e politico.
La Burocrazia: il sogno segreto di capitalisti e rivoluzionari
La percezione comune relega la burocrazia a invenzione dello Stato moderno, spesso associandola a un socialismo inefficiente e soffocante. La realtà, però, è molto più complessa e rivelatrice. La burocrazia, come ideale di organizzazione, è stata il modello a cui hanno aspirato visioni politiche diametralmente opposte.
Da un lato, Lenin vide nel servizio postale tedesco il modello perfetto per l’organizzazione dell’intera economia sovietica. Un dettaglio storico arricchisce il paradosso: quel servizio postale era stato acquisito dallo Stato tedesco dal monopolio privato del barone Thurn und Taxis. Lenin, il rivoluzionario, sognava un sistema basato su un’impresa capitalista nazionalizzata.
“Tutte le economie nazionali devono essere organizzate come le poste tedesche: i tecnici, i sorveglianti contabili, come tutti i funzionari dello Stato devono essere retribuiti con uno stipendio non superiore al salario di operaio, sotto il controllo e la direzione del proletariato armato ecco il nostro fine immediato”
Contemporaneamente, figure come Bismarck utilizzavano sistemi burocratici per scopi opposti: prevenire la rivoluzione socialista attraverso la creazione di un welfare state efficiente e regolamentato.
Questo paradosso è significativo. Rivela che entrambe le visioni, quella rivoluzionaria e quella capitalista di stato, sognavano un ordine sociale basato su una coerenza logica, un trionfo della ragione sul caos delle relazioni umane. E in una burocrazia efficiente, impersonale e onnipresente vedevano la pietra angolare per realizzare quel sogno.
L’IA alleata dell’agente artificiale e del suo linguaggio: la burocrazia
Il dibattito pubblico sull’intelligenza artificiale si concentra spesso sui rischi etici degli algoritmi. Ma la vera minaccia, la più inquietante, non è l’IA da sola, ma la sua fusione con un “agente artificiale” molto più antico e potente: la burocrazia.
Possiamo vedere la burocrazia come la “voce dell’agente artificiale” (lo Stato, un’azienda, un’organizzazione) che dà forma alle procedure, ai moduli, alle classificazioni. Gli algoritmi dell’IA, a loro volta, sono la “voce dell’intelligenza artificiale”. L’unione di queste due voci sta creando la “tempesta perfetta che fa affondare l’umano”.
Questa alleanza chiude il cerchio. Non si limita ad automatizzare processi, ma estende il suo dominio ai desideri, alle preferenze e alle decisioni, trasformando l’essere umano in un semplice agente di trasmissione dati, un nodo in un sistema che non comprende e non controlla. Il problema non è più solo l’uso non etico degli algoritmi, ma la natura stessa di questo sistema integrato, che ci allinea alla sua logica artificiale e ci svuota progressivamente della nostra umanità. Il suo esito finale non è un’obbedienza silenziosa, ma una deriva pericolosa: alimentando la depressione sociale, rischia di innescare scoppi di violenza come disperato tentativo di recuperare una comunicazione autenticamente umana.
Stiamo dimenticando come pensare: dal codice alfabetico a quello digitale
Il cambiamento tecnologico più profondo non è negli strumenti che usiamo, ma nel “codice” fondamentale attraverso cui interpretiamo il mondo. Stiamo vivendo una transizione epocale, dal “codice alfabetico” al “codice digitale”, che sta alterando la nostra stessa cognizione.
Il codice alfabetico, quello che ha plasmato per secoli il pensiero occidentale, ci ha abituati a un apprendimento sequenziale, narrativo, che favorisce la riflessione e la costruzione di argomentazioni complesse. La verità, in questo universo, era una costruzione basata sulla coerenza interna, sulla verificabilità e sulla resistenza alla critica. Al contrario, il codice digitale ci immerge in un apprendimento frammentato, decontestualizzato, fatto di flussi di dati e non di storie. La sua verità non è più coerenza, ma predittività ed efficienza: un cinico “basta che funzioni”.
Questa transizione ha innescato una profonda “crisi epistemica”. Il costo per produrre falsità è crollato, mentre quello per verificare i fatti è aumentato esponenzialmente. La verità non è più qualcosa che si scopre attraverso la riflessione, ma qualcosa che viene calcolato da un algoritmo per ottimizzare un risultato, spesso l’engagement.
Un aneddoto illustra perfettamente questo cambiamento cognitivo. Un manager, osservando la figlia di un anno che cercava di “scorrere” con le dita le immagini su una rivista patinata, commentò: “Per mia figlia, una rivista di moda è un iPad che non funziona”. I modelli mentali con cui le nuove generazioni interagiscono con il mondo sono già stati riconfigurati.
Il “Dolore Burocratico”: un vuoto esistenziale fatto di emozioni simulate
Il “dolore burocratico” non è un fastidio superficiale. È un’esperienza profonda che incide sulla qualità della vita, sulla dignità e sul senso di sé. È lo stress di procedure incomprensibili, l’ansia di scadenze arbitrarie e, soprattutto, il senso di impotenza di fronte a un sistema impersonale.
Questo dolore si manifesta in paradossi kafkiani che colpiscono soprattutto i più fragili: “senza residenza non ho permesso di soggiorno, senza permesso di soggiorno non ho residenza”; “se faccio domanda per una casa popolare la ottengo solo se ho un Isee molto basso, ma se trovo lavoro l’Isee si alza e non ho la casa”.
Questo dolore, però, è anche il sintomo di un vuoto più profondo. La burocrazia, classificando la realtà e standardizzando le relazioni, ci protegge dalla complessità e dalla fatica dei rapporti umani diretti, ma il prezzo è un “vuoto di senso”. Quel vuoto diventa il terreno fertile per una depressione di tipo sociale, un’insicurezza esistenziale che cerchiamo disperatamente di riempire. Lo colmiamo attraverso “simulazioni” di rabbia o compassione: l’odio per lo straniero mai incontrato, la fede calcistica, la polarizzazione politica. Emozioni intense ma surrogate, che alla fine ci lasciano con un persistente senso di artificialità.
La destra si è impadronita della rabbia antiburocratica, lasciando i progressisti a difendere il sistema
Inevitabilmente, il vuoto di senso e la rabbia generati dalla burocrazia hanno assunto una potente dimensione politica. La destra conservatrice ha colto con abilità l’opportunità di presentarsi come “rivoluzionaria”, paladina delle vittime del sistema e interprete della rabbia popolare contro le regole percepite come ingiuste e oppressive.
Questa strategia ha messo i progressisti in una posizione estremamente difficile. Con l’illusione di poter eliminare tutti i privilegi, si sono spesso ritrovati a difendere il sistema di regole impersonali, rimanendo intrappolati in una logica che promuove l’efficienza fine a sé stessa e che ha progressivamente alienato “la gente”. Si è così generato il paradosso politico del nostro tempo: la destra conservatrice ha indossato i panni del rivoluzionario, mentre la sinistra progressista si è ritrovata a fare da guardiano a un sistema impersonale che ha alienato proprio coloro che intendeva proteggere.
Questa dinamica ha permesso alla destra di intercettare una potente ondata di disillusione, lasciando “il cerino in mano” a una sinistra percepita come elitaria e distante dai problemi concreti delle persone.
Non un’epoca di cambiamenti ma il cambiamento di un’epoca
L’automatizzazione del giudizio, nell’epoca del codice digitale, favorisce la sostituzione della riflessione che dovrebbe precedere il giudizio, con previsioni, metriche, conformità, ma, che, proprio per questo attrae, in quanto l’atto del giudizio umano comporterebbe incertezza e fatica.
Il linguaggio, da specchio del pensiero, diventa un’interfaccia, l’azione si sostituisce all’intenzione, il suggerimento alla riflessione. Il linguaggio usa per esprimersi regole e strumenti pensati da qualcun altro, la burocrazia. Ma se questo qualcun altro pensa e decide (suggerisce) al nostro posto, questo è un problema. Per superare la disumanità del rapporto tra burocrazia e individuo, occorre che l’uomo rifletta sul significato della norma e, in questa riflessione sta il ruolo vero dell’umano.
Ma sono di due tipi i motivi che rendono difficile immaginare che l’IA possa rimanere uno strumento di ausilio e supporto all’umano ed allo sviluppo della coscienza dell’umano, e non prestarsi al rischio e alla marginalizzazione dello stesso umano.
Il primo riguarda il collettivo e rimanda alla inadeguatezza della politica in un sistema capitalistico (privato o di stato che sia) a favorire un uso che promuova l’umano.
Se l’intelligenza artificiale viene studiata e sviluppata proprio per migliorare l’efficienza, cioè per risparmiare risorse, tempo e fatica, allora come è possibile che l’uomo, beneficiario e vittima della burocrazia algoritmica, possa essere favorito da tale burocrazia a rallentare il ritmo, per riflettere sui significati del suo agire. E possa essere favorito quando affronta decisioni a non tenere conto di quelle procedure che sono rassicuranti proprio perché automatiche.
E, soprattutto, questo rallentamento non può essere favorito dalle piattaforme che gestiscono e promuovono la tecnologia, perchè secondo la metrica monetaria del profitto e non solo di questo, non sono incentivati per fare questo. Nessuno comprerebbe algoritmi che promuovano la resistenza, nessun soldo potrebbe ripagare l’investimento fatto, nessun accumulo di denaro (capitale) potrebbe essere impegnato, senza alcun ritorno del capitale investito derivante da un incremento delle vendite.
Il secondo tipo di motivo è individuale e attiene all’attuale immaturità, quasi ontologica, di un dialogo armonico tra razionalità e istinto, tra cognizione consapevole e consapevolezza dell’inconscio
E questa immaturità costituisce una condizione che rende difficile impedire una trasformazione profonda, cognitiva che incida negativamente sullo stesso modo di sentirci umani. Senza che ce ne accorgiamo, attraverso il cavallo di Troia della burocrazia, il digitale e la I.A. portano l’illusione di un libero arbitrio, da sempre incerto, a diventare sempre più illusorio.
Una sensazione inconsciamente percepita, di cui ogni tanto diventiamo consapevoli, che, infilandosi nelle crepe di una vita piena di impegni, che, a loro volta, danno l’illusione di un senso, riemerge e ci dà la sensazione che la vita un senso non ce l’ha.
Fu l’introduzione del codice alfabetico che permise di utilizzare artifici per staccare la parola dal pensiero (scrittura, riti e costruzione di contesti che ne facilitano l’autoriflessione), capire meglio cosa pensassimo e costruire quel senso.
Ma, se è vero che l’”io” è un prodotto mutevole di processi emergenti che ci attraversano e non un presupposto allora si capisce perché i media nel mondo del codice digitale, diventando un’estensione che riconfigura i processi relazionali, ridefiniscono la stessa identità (fatta di legittimazione, resistenza e progetto), inserendola in un’identità collettiva reticolare. E se è vero che la narrazione di noi stessi ci permette di mantenere una coerenza interna alle forme emergenti che il nostro io assume nei processi relazionali e sempre più reticolari, allora una narrazione determinata esternamente dal nostro avatar, dal nostro futuro gemello digitale, introduce un’identità diventa ontologicamente schizofrenica.
Sono queste riflessioni che dovrebbero indurci a comprendere che la rivoluzione digitale non caratterizza un’epoca di cambiamenti, ma, piuttosto, rappresenta un cambiamento di un’epoca.
Conclusione
Queste scomode riflessioni dimostrano che la burocrazia non è un argomento noioso o marginale. È il linguaggio con cui l’artificiale dialoga con l’umano, una forza che, alleata con l’IA, sta definendo le coordinate del nostro futuro politico, sociale e cognitivo. Non possiamo eliminare la burocrazia, perché è fondata sulla nostra stessa capacità di classificare il reale, l’essenza del pensiero simbolico. Possiamo e dobbiamo, però, trasformarla. In un mondo dominato dall’alleanza tra agenti artificiali e intelligenza artificiale, la vera resistenza non è rifiutare le regole, ma trasformarle continuamente attraverso l’autonomia, la competenza e la ricerca di uno scopo più grande di noi.
Forse, oggi più che mai, la soluzione è riscoprire il significato di quel vecchio slogan: “l’immaginazione al potere”. Ma abbiamo ancora la capacità di immaginare un futuro diverso da quello che gli algoritmi prevedono per noi?
Per dire quanto è importante il cambiamento epocale, basti ricordare che la stessa Bibbia nella Genesi (2, 5) parla di creato presentato all’uomo perché dia i nomi alle “cose”, cioè ne dia un significato. Ma, dare il nome significa anche classificare, cioè sviluppare burocrazia e ora questa viene condivisa con la I.A.: non è una questione di poco conto.
(6 novembre 2025)
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