di Silvia Morganti
È ben noto a tutti che il pinkwashing consista in una strategia di marketing che sfrutta i sentimenti e i valori dei consumatori sensibili a tematiche sociali. Limitandosi però ad una superficialità che non contribuisce realmente alla causa. Un semplice meccanismo che permette ai brand di apparire progressisti senza intraprendere azioni concrete.
Ma non esiste solo un tipo di pinkwashing.
Riepiloghiamo.
Il termine, formato dalla crasi delle parole “pink”, (rosa, colore simbolo dell’emancipazione femminile) e “whitewashing”(imbiancare, nascondere) allude a una manovra di marketing a fini strategici, tutt’altro che etica, di sposare una causa nella promozione di un prodotto con lo scopo di attirare l’interesse dei consumatori più attenti alle tematiche sociali con l’intento di aumentare così le proprie vendite.
L’appropriazione di linguaggi, simboli e valori femministi o queer è funzionale al miglioramento della brand reputation.
La caratteristica più attraente del pinkwashing per le aziende è la sua trasversalità. Può essere infatti applicabile a più settori.
Il termine è stato utilizzato nei primi anni Duemila dall’associazione Breast Cancer Association, la cui principale attivista, Barbara Brenner, condusse una incessante battaglia contro la mercificazione della malattia. Fu anche l’ideatrice del progetto Think Before You Pink® lanciato nel 2002 in risposta alla crescente preoccupazione del numero di prodotti sul mercato contrassegnati con nastri rosa. Molti brand statunitensi, infatti, soprattutto nel settore della cosmesi, stavano approfittando della particolare sensibilità al problema per nascondere la presenza di alcuni ingredienti, contenenti sostanze chimiche spesso associate all’insorgenza del cancro, all’interno dei loro prodotti. Alcune aziende arrivarono anche a regalare prodotti di make-up alle malate oncologiche per mostrare la propria vicinanza alla causa.
“Pinkwasher: (pink’-wah-sher) sostantivo. Un’azienda o un’organizzazione che dichiara di prendersi cura del cancro al seno promuovendo un prodotto con il nastro rosa, ma che allo stesso tempo produce e/o vende prodotti collegati alla malattia.” (BREAST CANCER ACTION)
Col tempo, il significato del termine si è ampliato. Ad oggi viene frequentemente utilizzato per qualificare in senso generale la promozione di una realtà attraverso lo sfruttamento di specifiche battaglie per l’inclusività. Su tutte quelle riguardo l’emancipazione femminile e la promozione dei diritti LGBTQIA+. Oggi il pinkwashing trova un ulteriore prolungamento, sul versante femminista, nel commodity feminism cioè il modo in cui le aziende si appropriano di linguaggi, simboli e valori del femminismo, li svuotano del loro significato politico e li ripropongono in una forma mercificata. L’appropriazione è funzionale al miglioramento della brand reputation, ma in realtà altro non fanno che confermare quegli stereotipi di genere e standard di bellezza che, all’apparenza, affermano di voler combattere.
Il rainbow- washing è un neologismo piuttosto recente (evoluzione del precedente pinkwashing).
“L’atto di utilizzare o aggiungere colori e/o immagini dell’arcobaleno a pubblicità, abbigliamento, accessori, punti di riferimento… al fine di indicare un sostegno progressivo all’uguaglianza LGBTQ+ (e guadagnare credibilità da parte dei consumatori), ma con il minimo sforzo o risultato pragmatico” (definizione Urban Dictionary).
Ma il termine pinkwashing è anche una strategia di promozione della tutela dei diritti della comunità LGBTQIA+ come prova di liberalismo e democrazia, in particolare per distrarre o legittimare la violenza contro altri paesi o comunità.
Per questo si parla di nuovo, o meglio ancora, del pinkwashing in Israele. E alla pratica, che in questo fenomeno è insita, di presentarsi gay friendly per nascondere o imbiancare il proprio comportamento negativo, mascherando aspetti violenti e antidemocratici.
Probabilmente risale al 1998 l’inizio della strumentalizzazione della comunità LGBTQIA+ da parte di Israele dopo che Dana International, una cantante trans israeliana, vinse l’Eurovision. Nel 2005, il governo israeliano iniziò a promuovere il paese come destinazione turistica gay-friendly. Il 2010 è l’anno dell’annuncio da parte dell’International Gay and Lesbian Travel Association per promuovere Israele come world gay destination, lanciando la campagna Tel Aviv Gay Vibe, con l’offerta di viaggi scontati e attività gratuite ai turisti LGBT. Tel Aviv verrà, nel 2011, nominata la migliore città gay in un concorso internazionale di American Airlines in cui si selezionavano le destinazioni più popolari tra i turisti LGTBQIA+. E nel 2012 vincerà il titolo di migliore destinazione di viaggio al mondo per la comunità. La campagna è stata sicuramente ideata per ritrarre Israele come nuova mecca gay del Mediterraneo. Lo stato israeliano, in quanto circondato da nazioni dove l’omosessualità è severamente proibita, ha potuto proporre l’ immagine di sé come oasi per i diritti LGBTQIA+. Ma, a detta di molti, ha avviato soprattutto un’operazione di promozione del Paese come luogo progressista, liberale, aperto e democratico.
Militanti e accademici che si battono contro l’occupazione israeliana hanno definito queste strategie messe in atto dal governo come pinkwashing sottolineando quanto la narrazione strida con una realtà molto più complessa e frammentata.
Nel 2011, Sarah Schulman, docente dell’Università di New York, scrittrice e attivista queer e contro l’occupazione, titolava un articolo sul “New York Times” Israel and Pinkwashing descrivendo il fenomeno in tutte le sue sfaccettature e riconfigurando il termine rispetto al Medioriente.
“una strategia deliberata per nascondere le continue violazioni dei diritti umani dei palestinesi dietro un’immagine di modernità rappresentata dalla vita gay israeliana”
Sarah Schulman prende in considerazione il pinkwashing come manifestazione di omonazionalismo.
Questo termine venne coniato nel 2007 dalla professoressa di teoria queer e studi di genere negli Stati Uniti Jasbir K. Puar nel suo libro “Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times”. La creazione di questo termine, nell’analisi di Puar, si giustifica all’interno della nuova configurazione del nazionalismo e del patriottismo statunitense dopo l’11 settembre
“Nel momento in cui lo Stato-nazione statunitense produce narrative di eccezione attraverso la guerra al terrore, deve temporaneamente sospendere la sua comunità immaginata etero normativa per consolidare il sentimento nazionale ed il consenso attraverso il riconoscimento e l’incorporazione di alcuni, sebbene non tutti o la maggior parte, soggetti omosessuali. […] Attraverso la produzione transnazionale delle corporeità terroriste, i soggetti omosessuali che avevano diritti legali limitati nel contesto civile degli Stati Uniti guadagnano significativa legittimità di rappresentazione una volta situati all’interno della scena globale della guerra al terrore. […] Mettendo in evidenza i circuiti del nazionalismo omosessuale, noto che alcuni soggetti omosessuali sono complici delle formazioni nazionaliste eterosessuali piuttosto che esserne naturalmente o automaticamente esclusi o in opposizione. Inoltre, una forma ancora più insidiosa di eccezionalismo sessuale omosessuale si manifesta nelle messe in scena del nazionalismo statunitense attraverso una prassi che costruisce le «sessualità altre», una prassi che rende «eccezionali» le identità delle omosessuali statunitensi vis-à-vis le costruzioni orientaliste della «sessualità musulmana”
In un articolo successivo, In Rethinking Homonazionalism, la stessa Puar scrive che i due termini (pinkwashing e omonazionalismo) non sono paralleli ma piuttosto che il pinkwashing può esistere perché esiste l’omonazionalismo.
I washing al giorno d’oggi sono ovunque. Ma anche i più insospettabili possono essere smascherati.
(29 gennaio 2024)
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