di Alfredo Falletti
In un periodo in cui si susseguono dichiarazioni rassicuranti, celebrazioni di improbabili raggiungimenti di obiettivi e prospettive miracolistiche di crescita, sarebbe forse un bene tornare sul pianeta terra e cercare concretezza facendo l’unica cosa saggia: dare i numeri, ma partendo da concreti dati macro e micro economici.
Convenzionalmente tutto nasce nel 1998 con l’inizio della stagnazione economica in cui la locomotiva Italia, sempre più vaporiera e meno “Alta Velocità” rallenta la sua già precaria corsa fermandosi nel 2007, anno di inizio della crisi con il nord che sembrerebbe non accorgersi di aver perso oltre 8 punti di PIL nonostante un commercio basato soltanto sull’esportazione all’estero.
Ad oggi il nord non ha recuperato granché di quel gap crescendo annualmente con percentuali risibili rispetto al resto d’Europa e come se non bastasse, le aziende che costituivano le “eccellenze del Made in Italy” sono state acquisite a man bassa da francesi, tedeschi, americani e perfino spagnoli trasformando quella macro regione industriale in una colonia straniera.
Solo qualche esempio del ben più nutrito elenco di ciò che è passato in mani straniere: Ansaldo, Magneti Marelli (GIAPPONE); Perugina, Buitoni, San Pellegrino, Benetton (SVIZZERA); Versace, Italo Alta Velocità (USA); Tim, Bulgari, Valentino, Galbani; Gucci, Fiat Ferroviaria, Parmalat, Fendi, Locatelli, Invernizzi, Eridania Zuccheri (FRANCIA); Ducati, Lamborghini, Italcementi, (GERMANIA); Bertolli (OLANDA), Carapelli, Star, Olio Sasso (SPAGNA). E l’elenco continua con la Fiat Avio e la Omnitel alla GB, Pininfarina all’India e così ancora fino a guardarsi intorno e trovare quasi il deserto tanto da chiedersi di cosa debba occuparsi il Ministero del Made in Italy. Le vendite da parte degli imprenditori italiani somigliano tanto al “prendi i soldi e scappa” del grande Woody Allen.
Trent’anni di politica incapace di far fronte a questa dismissione riconducibile all’esasperazione dell’imprenditoria nazionale causata da incertezze di politica e mercati e dai costi insostenibili; realtà aggravata dalla delocalizzazione in altri Paesi, soprattutto dell’est europeo.
Basterebbe considerare le analisi economiche e sociali ormai ampiamente diffuse per constatare che tutto questo è originato dal crollo del sud sempre più profondamente in crisi che, rappresentando il vero mercato del nord con punte – a seconda della categoria merceologica – dal 60% al 70% di fatturato, non sia più in grado di “comprare” il prodotto del nord e la politica, costantemente impegnata in un’eterna campagna elettorale, si ostina a non vedere ciò che sta determinando.
Atteggiamento diametralmente opposto a quello della Germania che, dopo la caduta del muro nel 1989, nell’ottica dell’inclusione ha fatto investimenti colossali per colmare il divario ovest/est.
Banca d’Italia, Svimez, Conti Pubblici Territoriali (CTP), economisti di chiara fama lo affermano già da anni che la ripresa deve partire dal Sud, territorio che necessita di strutture primarie e servizi indispensabili e nel quale gli investimenti, per questo motivo, avrebbero un ritorno dieci volte superiore rispetto agli investimenti fatti al nord creando così un potentissimo volano economico del quale proprio il nord beneficerebbe ritrovando il suo mercato naturale.
La politica non ha mai fatto tesoro dell’esempio degli altri Paesi europei che hanno visto nell’investimento sulle aree più deboli il mezzo per combattere la crisi: l’Irlanda, la Spagna cresciuta di oltre il 4% e perfino la Grecia hanno assistito alla crescita dei salari negli ultimi trent’anni così come in tutta Europa con la sola eccezione dell’Italia, unico Paese UE nel quale i salari si sono addirittura contratti.
Il risultato di questa politica ce lo fornisce Eurostat: delle cinque regioni europee con la più bassa occupazione, ben quattro sono italiane: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.
Tasso di Occupazione tra i 15 ed i 64 anni: dal 41% della Sicilia al 46% della Puglia quando la media di Occupazione EU è del 68,5%. A farne le spese, oltre i giovani, anche le donne: occupate per meno del 30%.
Ci sono i presupposti per una recessione del Sud ed il Rapporto Svimez 2022 presentato alla Camera non lascia spazio a interpretazioni evidenziando un Pil che potrebbe contrarsi fino a -0,4% rispetto al 2022 mentre l’economia del Centro-nord, rimarrebbe positiva con un +0,8% rispetto al 2022. Ben oltre un punto percentuale di divario che penalizzerà le imprese e le famiglie meridionali. Quelle più povere cresceranno raggiungendo quasi certamente il 10% su scala nazionale, ma concentrate nel Mezzogiorno. Un dato che si traduce in oltre mezzo milione di nuovi poveri assoluti al sud.
Svimez afferma la necessità di una revisione globale delle priorità e soprattutto quella di “rimettere in gioco il Mezzogiorno” cercando di ridimensionare il divario tra nord e sud ormai vicino al punto di non ritorno riducendolo grazie ad una serie di opportunità strategiche: transizione verde, infrastrutture primarie, creazione e potenziamento di servizi, accelerazione del passaggio a fonti rinnovabili, industrializzazione connessa alle peculiarità dei territori.
Per realizzare tutto questo c’è una sola cartuccia da sparare ed è il PNRR.
L’impiego razionale dei fondi potrebbe portare ad un’inversione di marcia nell’andazzo del “sistema Paese” con beneficio per tutti i livelli economici, sociali e territoriali.
Basti pensare che negli ultimi venti anni circa 1,5milioni di giovani ha lasciato il Meridione e quasi il 30% di questi è laureato ed altrettanti sono diplomati e/o hanno frequentato scuole professionali.
Il PNRR è nei fatti l’ultimo treno disponibile non solo per il Meridione, ma per il Paese nella sua integrità ed unità.
(14 febbraio 2023)
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