di Silvia Morganti
Viviamo in una società fortemente performativa ed immersiva, di costante esposizione mediatica. Società nella quale il pubblico e il privato si fondono, il giudizio è puntuale e costante, le pressioni socio-culturali feroci. La pervasività delle immagini e la loro ripetizione conducono all’anonimato e alla routinizzazione delle esperienze. Creando omologazione e, di conseguenza, una sensazione angosciante di spaesamento.
La mente dei giovani viene così inevitabilmente invasa da ansia, disorientamento, distorsione. Spiegato così il fenomeno in costante aumento degli hikikomori. Come commenta Marco Crepaldi, psicologo, presidente e fondatore di Hikikomori Italia: “Si tratta di una pulsione all’isolamento fisico, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale. I dati di cui disponiamo parlano di un 87% di maschi, ma è probabile che il numero di donne coinvolte sia sottostimato”.
Ed ecco emergere un altro termine da legare (disgraziatamente) ai giovani: atelofobia. Il termine deriva dal greco (atelès, “imperfetto, incompleto” e phóbos, “paura”) e rappresenta la paura di non sentirsi all’altezza, di essere imperfetti o di usare parole improprie. L’atelofobia è classificata come un disturbo d’ansia, che influenza le relazioni personali e che si traduce in un costante senso di inadeguatezza. Chi soffre di atelofobia crede che tutto ciò che fa o dice sia sbagliato. Una paura delle imperfezioni, in qualsiasi ambito della vita quotidiana (aspetto fisico, relazioni interpersonali, scuola o attività lavorativa, idee e convinzioni). I sintomi possono essere mentali (visione pessimistica sul risultato di una situazione ancora non avvenuta, bassa autostima, estrema delusione se non si riesce in qualcosa), emotivi (emozioni negative come rabbia, tristezza, senso di colpa e dolore), fisici (attacchi di panico, inquietudine costante).
La colpa (lo affermo e sottoscrivo) è della società tutta. Non solo intesa nella sua dimensione più astratta, ma nei suoi attivi microcosmi, come quello familiare, scolastico, lavorativo, comunicativo. Società che non solo non è stata, e continua a non essere, in grado di insegnare un linguaggio di solidarietà e compassione, ma altro non fa che impegnare i giovani in una lotta performativa giornaliera all’ultimo sangue.
I giovani devono essere docili, seppur si ritrovino impegnati a combattere ogni giorno per rientrare in quei canoni socialmente riconosciuti e accettati, sponsorizzati dai mass media e avallati dalle famiglie, dagli istituti scolastici e dagli ambienti lavorativi. Non devono arrabbiarsi o ribellarsi al sistema, altrimenti verranno etichettati come “diversi”, vero stigma di questa società. I giovani devono essere affermati, socialmente riconosciuti, gradevoli alla vista. Devono diventare adulti di successo, declinato in ogni suo aspetto.
I giovani devono darsi da fare, sono il nostro futuro dopotutto no? Devono impegnarsi. Devono. Sempre e continuamente. Senza pensare che potrebbero non farcela. Perché quelli che non ce la fanno non vengono “pubblicizzati”, quelli che non ce la fanno sono dei falliti, sono dei diversi, non c’è spazio per loro. E così i giovani l’uscita d’emergenza se la trovano da soli, a volte con classiche fughe dal mondo come la droga e l’alcol, altre con l’hikikomori, altre con la morte.
Fallire significa non concludere nulla nella vita, ma nessuno fallisce in tutto. Ci vogliono far credere che un solo errore ci determini e rappresenti. Perché è più facile giudicare una sconfitta che una vittoria. E questo accade perché manca un discorso bilaterale, un momento di ascolto, una mano tesa per aiutare a rialzare il prossimo e non a spingerlo nel baratro. Il fallimento è della società che continua a perpetuarsi nella ripetizione di una vita artefatta e ingannevole, creata su un basamento di silenzi e sussurri di dolore.
(3 febbraio 2023)
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